Riccardo, una sfida per la scuola - GSO

Riccardo, una sfida per la scuola

Quinta ragioneria. Capelli arruffati, mori. Sguardo spento, spesso assonnato. Alto, magro, occhi grandi scuri. Abbigliamento trasandato: un paio di jeans, la solita camicia e la felpa che d’inverno ripara il corpo magro dalle basse temperature. Qualche volta arriva in ritardo. Qualche volta è assente. In classe raramente è attivo. Ha sviluppato, in particolare, l’intelligenza logico matematica. Normalmente, però, in matematica prende 4. “Studente dalle buone capacità deduttive, ma poco motivato e interessato allo studio”. Questo è il giudizio che normalmente alla fine dell’anno formulano gli insegnanti.

La nonna che vive con lui difficilmente si accorge dei suoi bisogni primari. È lì al fianco di un nipote che è alla ricerca di qualche considerazione da parte dei genitori che hanno aperto una gelateria in Germania.

Riccardo aspetta che i genitori tornino in Italia una volta al mese per riprendere le fila di un discorso educativo intermittente spesso vissuto in modo difficile.

Genitori che lo riempiono di regali e rimproveri per cercare di colmare un vuoto di affetto che si manifesta nell’assoluta indifferenza dei suoi comportamenti. Indifferenza verso la nonna che è lì a preparare la colazione quando si ricorda; che è lì a vegliare semi-addormentata il ritorno del nipote alla sera inoltrata. È lì come un attaccapanni vecchio che talvolta si usa e talvolta no. Indifferenza verso i genitori che non colgono il bisogno di affiancamento del figlio. Indifferenza verso i compagni di classe che faticano a comprendere il modo di relazionarsi del compagno spesso apatico, isolato, fuori dall’ordinario, ma proprio per questo simpatico perché di per sé contro: contro un sistema che lo ignora, contro una scuola che mal lo sopporta, contro una famiglia inesistente.

L’essere contro per dimostrare di esistere. L’essere contro per volersi sentire.

L’essere contro per trovare finalmente qualcuno in grado di comprendere il suo disagio interiore.

Sono riflessioni di un adulto che osserva il disagio ma assolutamente inconsistenti nella testa di Riccardo.

Già immagino la sua reazione a questi commenti: “Ma cosa dice prof, io non mi avvicino neanche lontanamente all’immagine che ha su di me. Io non provo solitudine. Io vivo e basta. Non mi faccio domande. Penso solo a finire questa scuola. I miei genitori devono pur lavorare. La nonna è simpatica anche perché un po’ fuori con la testa. Si pensi che l’altro giorno la radiosveglia continuava a suonare, ma ho dovuto svegliar io la nonna perché per quanto è sorda non sentiva nulla. Io mi accontento di quello che ho, non mi interessano i massimi sistemi. La vita va vissuta e basta. Questa è la mia situazione. Questa è la mia realtà”.

“Mi no vago a combatar!” ripete con convinzione questa tipica espressione veneta che suggerisce di prendere la vita come viene senza cercar in alcun modo di lottare per cambiarla.

Tu dì bianco che io dico nero. Tu dì amore che io dico odio. Tu dì scuola che io dico lavoro. Tu dì auto che io dico moto. Tu dì qualcosa che io sto zitto.

Mi piacevano i suoi sguardi attoniti, increduli, sbalorditi di fronte alle mie riflessioni logiche, razionali, ragionevoli e coerenti.

Opero il lancio e aspetto il ritorno del cane con il bastone in bocca. Poi gli do in premio il pezzo di carne. Solo che con lui il bastone non tornava mai. Il pezzo di carne mi restava in mano. A questo punto neanche dargli il pezzo di carne senza motivo serviva: se glielo davi ti ringraziava; se glielo negavi alzava le spalle e se ne andava. Bastone o carota?

Né l’uno né l’altro, oppure tutti e due insieme, oppure a volte l’uno e a volte l’altro. Assolutamente imprevedibile.

Tu, insegnante, sei in classe. Hai un alunno imprevedibile. Pensi di poterlo valutare in Economia Aziendale, ma lui valuta te come se le cose che fai fossero le più assurde del mondo. Pensi di giudicarlo, ma ti senti giudicato. Allora il principio di autorità vuole che tu faccia la voce grossa contro questo ragazzo figlio dell’indifferenza. Lui ti ascolta, ti guarda con lo sguardo tipico della mucca che dal pascolo osserva passare il treno. Ti chiedi cosa puoi insegnare ad un ragazzo così. Ti senti impotente e assolutamente inadeguato a trovare gli strumenti dalla cassetta degli attrezzi del docente che vuole aiutare tutti i ragazzi. Lui non vuole essere aiutato. Lui vuole solo vivere, forse sopravvivere e forse prendere il diploma di ragioniere.

Sa già che la rabbia dei genitori si calma con qualche sprazzo di impegno scolastico. Sa già che la rabbia degli insegnanti si calma con qualche silenzio in più e qualche sguardo perso nel vuoto di meno. Sa già che la rabbia della nonna, beh no, la nonna non si arrabbia mai, anche perché è sorda e non coglie i significati delle conversazioni sull’andamento scolastico. Sa già, insomma, che per evitare le arrabbiature degli adulti è sufficiente un minimo di impegno.

Poi arriva il giorno della maggiore età, i genitori come premio gli comprano l’automobile dei sogni.

A quel punto a cosa serve andare a scuola?

“Se non ti impegni te la tolgo!”, alza la voce il padre in tono minaccioso di fronte al sottoscritto durante un incontro.

Osservo sconsolato una farsa familiare che si consuma per celebrare l’ennesimo delitto educativo: i genitori come assassini, il figlio come vittima, il consumismo dell’indifferenza come arma del delitto.

E tu, insegnante, ti ritrovi in classe lui: il ragazzo di buona famiglia, che se vuole ti ascolta, se non vuole si assenta, se lo minacci ti guarda come per cercare di capire il motivo di tanto fervore, se lo ignori sopravvive in attesa del prossimo bastone o della prossima carota.

Ho cercato in tutti i modi di capirlo.

Ho provato tutte le tecniche comunicative in mio possesso per sbloccare la situazione. Ho pensato e ripensato a quale fosse il modo per accendere il mio alunno. Ho continuato a dargli 3 e ad aspettare che qualche compito in classe fosse compilato in una minima parte. A volte succedeva. A volte no. Ho sentito i miei colleghi insegnanti parlare dell’inconsistenza del ragazzo, dell’assenza della famiglia, e dell’inutilità degli sforzi per cercare di capire la situazione. Ho sentito emanare la sentenza di ergastolo come ineluttabile. Decisione logica, di fronte a tale situazione, presa sulla base di dati oggettivi incontrovertibili, a prova di ricorso intentato dal miglior avvocato del mondo.

Non ci sono discussioni.

Dopo il primo quadrimestre l’alunno ha tutte le materie insufficienti. Siamo a maggio e la discussione del consiglio di classe verte su ammettere o non ammettere lo studente agli esami.

Non ci si pone neanche il problema. Si ritira il cinque maggio.

Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza: noi chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui

del creator suo spirito più vasta orma stampar.

Ciao allievo mio, grazie per avermi insegnato a non arrendermi mai, a cercare sempre nuove sfide didattiche, educative e relazionali.

Con te ho perso! Esco sconfitto!

Non ce l’ho fatta a capire e a trovare nuove strategie con cui motivarti.

Mi hai insegnato a non dare nulla per scontato, a cercare fino in fondo le risorse interne per riuscire a trovare nuove rotte sul mare aperto dell’educazione. Non ho cambiato la tua vita. In realtà ho cambiato la mia. Da una sconfitta ho trovato il senso del mio limite. Ho scoperto la bellezza del ricominciare. Ho esplorato il confine tra ciò che posso, ciò che devo e ciò che riesco a offrire come insegnante. Grazie davvero di cuore. Grazie di tutto, Riccardo.

Ti voglio bene.

Giordano Casonato
Direttore di GSO

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