Lo spaccio: come possiamo aiutare i nostri studenti? - GSO

Lo spaccio: come possiamo aiutare i nostri studenti?

Massimo aveva diciotto anni e frequentava la terza superiore quando in quel giorno del mese di febbraio non si presentò a scuola. “Prof l’hanno arrestato”, mi dissero i suoi compagni di classe. “Aveva un sacchetto di pasticche di ecstasy in tasca.” Non mi era ancora capitata la situazione di un alunno assente per arresto.

Come mai Massimo era finito in quella situazione?

Più volte mi sono arrovellato per capire come mai io non mi fossi mai particolarmente accorto di questo giovane un po’ svagato, ma sicuramente un buon ragazzo. Di sicuro non era annoverato tra gli studenti molesti o rumorosi. Solo un po’ svogliato.

Già, quante volte noi adulti non ci accorgiamo! Non ci accorgiamo delle persone che ci sono vicine e del loro disagio più o meno manifesto. Siamo troppo concentrati sui problemi che ci assillano, da quelli economici, a quelli lavorativi, di relazioni con i superiori, con i colleghi… poi ogni tanto c’è anche la famiglia. Sì la famiglia.

Bel coacervo di intricati rapporti relazionali spesso suscettibili di un amore mascherato da attenzioni ai bisogni materiali più che a quelli immateriali o spirituali. Adulti che realizzano i propri sogni e le proprie visioni sopra la coscienza dei loro figli.

Sembra un film tutto nostro, dove l’attore protagonista è il figlio con le sue difficoltà che devono essere assolutamente tutte superate, abbattute. Spianiamo strade di un deserto dei tartari che non porta mai alla guerra. Vuoti esistenziali riempiti con beni materiali.

Attese di cambiamenti e di successi scolastici che non arrivano mai.

E allora gli investigatori privati, gli avvocati, le ripetizioni, sono un mondo di risposte sbagliate date alla domanda di senso che viene dal figlio.

Perché nascondere?

Perché non affrontare le difficoltà?

Perché aver paura della verità dei fatti?

Perché non ascoltare con gli orecchi attenti il grido di sofferenza che si leva dalla nostra tavola imbandita di cibo ma sprovvista di affetto, prima ancora che amore?

Massimo torna a scuola, è stato rilasciato.

C’è un misto di ammirazione e commiserazione tra i compagni di classe. Tutti vogliono sapere cos’è successo quel maledetto sabato sera.

“Perché l’arresto?”

“Cosa è successo dopo?”

“Quanti giorni hai fatto in carcere?”

“Come ti sei trovato?”

Rimbalzano le domande a scuola. Il preside mi chiede cosa dobbiamo fare.

“Sa, professor Casonato, il motivo per cui è stato arrestato spaventa i genitori della nostra scuola. Sono tutti molto preoccupati. Facciamolo venire a scuola solo per le verifiche e le interrogazioni, poi possiamo completare l’anno scolastico con i voti che mancano”.

La comunicazione di una tale decisione del consiglio di classe viene affidata a me. Inoltre il preside mi chiede di tenere i rapporti con la famiglia fino alla fine dell’anno.

Risuona nella mia testa il titolo del libro di don Ciotti: “Chi ha paura delle mele marce?” E mentre colgo le preoccupazioni di genitori, compagni di classe, colleghi insegnanti relative al pericolo che incombe sulla scuola a causa di uno studente-spacciatore, io non smetto di chiedermi: “Di chi dobbiamo aver paura?”

Con la paura non si educa.

Con la prudenza si giustifica.

Con l’attesa si purifica.

Con la pazienza di svela.

Con la speranza si salva.

Con la fede si nutre.

Con l’amore si vive.

Massimo aveva bisogno di vivere.

Massimo voleva trovare le ragioni dell’amore vero, non quello mascherato dalle attenzioni materiali. Massimo avrebbe voluto un adulto in grado di contrastarlo, contraddirlo, combatterlo e invece ha trovato chi gliele ha date sempre vinte. Massimo finisce l’anno scolastico. È bocciato! Lascia la scuola. È maggiorenne e trova lavoro.

Mi chiama una sera di ottobre e fissiamo un appuntamento di lì a qualche giorno. Ha delle polizze interessanti da propormi e vuole ritrovare il suo vecchio prof che, ai tempi della scuola, gli aveva dedicato un paio di colloqui dove si era sentito ascoltato. In quel frangente mi ritornano alla mente tutta la sua amarezza per quanto accaduto e tutto il bene che la famiglia gli voleva.

Quest’ultima cosa per il momento gli bastava. A lui, ma non a me. Allora il colloquio con la madre era stato molto deludente. Più volte avevo cercato di convincerla del fatto che suo figlio avesse commesso un errore. Tuttavia ogni volta mi rispondeva con il ritornello: “Mio figlio è un bravo ragazzo. Tutti gli vogliamo bene. Le pasticche gliele hanno messe in tasca dei malintenzionati. Lui non c’entra niente”.

In queste situazioni, nascondere i fatti, edulcorarli o ignorarli del tutto è l’anticamera di un disvalore educativo, ovvero non fare i conti con la realtà, che nel tempo sono arrivato addirittura ad odiare. Odio inteso come profondo sentimento di rabbia contro un’idea o un comportamento che non porta bene. Che non porta il bene. Che è presagio di sciagure!

Così, dopo quel colloquio, i rapporti con la famiglia erano scivolati sui binari di una normalità tanto misera quanto assurda. Ad un evento eccezionale la famiglia aveva risposto minimizzando il problema e cercando di ripristinare una normalità quotidiana scolastica alquanto inefficace. Il lavoro poteva essere la soluzione. Così, con questi pensieri ricevevo Massimo. Mi parlava con il linguaggio di un venditore esperto e navigato!

Il colloquio era scivolato subito sui binari di un’interrogazione tutto sommata ben riuscita ma alquanto povera di elementi critici. Nel linguaggio burocratico scolastico si direbbe: “L’alunno si esprime con linguaggio adeguato al contesto e riporta in modo essenziale i contenuti richiesti”. Una sufficienza piena insomma.

Non firmai le polizze, ma gli diedi il voto.

Massimo era interessato al voto e non alla polizza. Voleva da me la certezza di essere preparato. Lo misi in guardia dalla necessità di rendere meno meccanica l’esposizione e di essere un po’ più interessato all’ascolto delle esigenze del cliente. Mi salutò, mi ringraziò e ci lasciammo con l’impegno di risentirci più avanti. Massimo aveva appena compiuto 19 anni.

Due anni dopo a scuola giunge la notizia: Massimo è stato trovato morto nella sua auto, distrutta da un incidente automobilistico alle quattro del mattino a Mestre. Aveva riportato a casa la fidanzata a mezzanotte.

Nessuno sa spiegare che cosa sia avvenuto tra la mezzanotte e le quattro del mattino di quella maledetta notte che ha stroncato la vita di un giovane assicuratore. Black out!

Rifletto sulla storia di Massimo e mi chiedo se quelle quattro ore di mistero non siano da ricercare in quel black out di coscienza che la famiglia ha voluto innescare al momento dell’arresto tre anni prima. Rinnovo quindi in me la convinzione di provare un odio profondo per tutte quelle volte in cui gli adulti, soprattutto se genitori, rimuovono i fatti ai propri figli per facilitargli la vita.

Meglio una vita difficoltosa ma piena, che facilitata e vuota.

Non rinviamo le discussioni con i nostri figli.

Affrontiamoli subito con forza energia e passione.

Meglio un genitore che rompe che un genitore che concede.

A volte voler bene è motivare i “no”.

Voler il bene è dire la verità qualsiasi cosa ci costi.

Vivere nel bene significa creare la coscienza alla verità, a partire dalla verità dei fatti.

Sbagliare agendo è meglio che sbagliare omettendo.

La conseguenza del primo errore è il perdono.

Del secondo, l’indifferenza.

Su questo triste episodio che ha solcato la mia esperienza di insegnante, sento la necessità di offrire la riflessione sul tema della coscienza all’educazione che gli adulti, siano essi genitori o insegnanti, dovrebbero maturare. Serve un risveglio pedagogico-educativo dal torpore sociale in cui siamo finiti.

Abbiamo la necessità di riprendere la strada della verità per amare con pienezza.

Una scuola che costruisce un’alleanza fondata sulla verità è il luogo in cui si può realizzare tale risveglio. Affrettiamoci a realizzarla, affrettiamoci a chiederla. Sarà un bel modo per costruire le basi d’appoggio del futuro dei nostri figli.

Giordano Casonato

Direttore di GSO